Università delle Donne di Milano
, Seminario del 5 maggio 2007

Riflessioni sulle forme della politica I

Inefficienza della rappresentanza e cancellazione delle donne dallo spazio pubblico.
Una democrazia soffocata nelle spire di gruppi oligarchici maschili a forte connotazione patriarcale e omofobica, può essere salvata?

Maria Grazia Campari

 

Queste riflessioni intendono dare una prima parziale risposta al quesito sopra riferito, che rappresenta, secondo me, un problema spinoso, molto attuale.
E’ il problema della democrazia paritaria, che a sua volta coinvolge varie tematiche (dal ruolo della famiglia alla violenza femminicida, all’autodeterminazione negata).
Mi sembra opportuno prendere in considerazione alcune delle categorie concettuali frequentemente usate nel nostro dibattito per analizzarne il significato originario, cercando di fare chiarezza.
Prima di tutto il concetto di democrazia come forma di governo ha una sua storia.
Ne riferisce da ultimo in un agile libretto il giurista Gustavo Zagrebelsky (“Imparare la democrazia”) che riprende un brano di Erodoto per illustrare l’impasse in cui si incappa ricercando la forma di governo ottimale. Questa discussione sta all’origine della politéia aristotelica, della repubblica romana e di tutte le successive evoluzioni
Narra Erodoto: i capi persiani che avevano guidato la ribellione vittoriosa contro i tiranni (i Magi) nel 522-521 a.C. discussero fra loro sulle forme di governo da adottare per evitare soprusi da parte dei governanti. Se non che i tre interlocutori, Otanes difensore della democrazia, Megabizos difensore dell’aristocrazia e Dareios difensore della monarchia, finivano ciascuno a turno per dare spunto all’altro per distruggere i propri argomenti. Gli argomenti della democrazia erano sconfitti da quelli dell’aristocrazia, quelli dell’aristocrazia da quelli della monarchia e quelli della monarchia dalla democrazia. (*)
Si tratta di una evidente difficoltà circolare cui gli antichi credettero di porre rimedio scegliendo un sistema di governo misto (celebrato anche da Cicerone come virtù della repubblica romana) per cui le istituzioni repubblicane dovevano essere una fusione di principi diversi : monarchico, aristocratico, democratico, dotandosi di un equilibrio che avrebbe impedito gli eccessi ed evitato la degenerazione della monarchia in tirannide, della aristocrazia in oligarchia, della democrazia in prepotenza del volgo.
Queste le lontane premesse circa le forme possibili di governo della cosa pubblica.
Avvicinandoci ai giorni nostri, si deve registrare come dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta delle dittature totalitarie di destra, la democrazia abbia prevalso come unico auspicabile sistema di organizzazione politica e sociale.
E’ opinione diffusa che si tratti di una reazione ai regimi totalitari che avevano scatenato la guerra: era stato privilegiato un concetto in polemica con il recente passato, che doveva segnare una nuova epoca attraverso il varo di assetti costituzionali, anche assai diversificati (capitalista, socialista, pluripartito, a partito unico) che mettevano il concetto di democrazia in tensione, allontanandolo dalla nitidezza originaria, con qualche pericolo, ma anche con qualche possibile esito progressivo, come vedremo .
Dunque, per riprendere concetti attualmente in discussione in questo periodo, politica (dal termine greco polis) è l’arte di ben governare la città (o per estensione, territori assai più ampi), mentre il potere (dal latino potis esse) ha il senso di avere capacità, facoltà, valore, quindi può ben considerarsi strumentale all’arte di ben governare. E’ lo strumento di quell’arte che si articola tradizionalmente nelle tre possibili forme già dette: monarchia, aristocrazia (oligarchia), democrazia.
Quindi, quando si dice che le donne non desiderano o non amano il potere, bisogna intendersi bene su ciò che si vuole realmente escludere con questa negazione.
Inoltre, quando si pone una sorta di contrapposizione fra politica e democrazia si incappa, secondo me, in un rischio: quello di mischiare piani concettuali diversi, mentre, forse, sarebbe più congruo ipotizzare che determinate scelte o azioni della politica possano essere volte a modificare qualità e assetti consolidati della democrazia che sperimentiamo, consumandone e alterandone le regole, fino a rovesciarne il senso verso significati prima impensati. Operare per rendere qualitativamente assai diversa dall’attuale la democrazia che progettiamo.
La democrazia che conosciamo, prescelta dai paesi occidentali, è definita rappresentativa: ciò significa che nel governo della polis il presente sta in luogo dell’assente. E’ una finzione simbolica che riguarda una generalità, in forza della quale il rappresentante simbolizza i rappresentati, finge la presenza del popolo.
E’ una concezione articolata e non priva di contraddizioni poiché sappiamo che essa non vuole essere una rappresentanza immediata di interessi (i voti, si dice, si contano e non si pesano), ma sappiamo anche che nella democrazia rappresentativa è andato inevitabilmente perduto il senso originario di democrazia come esercizio collettivo delle funzioni della sovranità sulla piazza.
Concettualmente, il sistema attuale contamina la rappresentanza territoriale (polìtes, membri di un’organizzazione politica, collettività insediata) con il governo dei capaci, cioè di coloro che sono scelti perché ritenuti maggiormente in grado di conoscere l’interesse generale (con aggancio al concetto di aristocrazia/oligarchia).
E’ un sistema che finge la presenza di tutto il popolo del quale si attua un concorso mediato; questo spiega perché ciascun eletto rappresenta la nazione nel suo complesso e senza vincolo di mandato.
Da questa architettura risulta agevole comprendere come il sistema della rappresentanza possa degenerare in oligarchia attraverso un uso distorto del sistema della mediazione, che pure è l’unico attualmente in uso (e, forse, concepibile).
Infatti, nelle democrazie pluralistiche pare sia sempre necessario un qualche filtro tra popolo e sede decisoria.
Il popolo non è considerato come un soggetto reale, ma come soggetto di diritto, centro di imputazione di norme giuridiche: è soggetto (origine) del diritto e, contemporaneamente, soggetto (sottoposto) al diritto (H. Kelsen “La democrazia”)).
E’ il modo in cui si afferma nel sistema democratico il governo delle leggi (ratio) in luogo del governo degli uomini (voluntas).
Il filtro (o mediatore) della sovranità popolare può essere altrimenti definito come sistema dei partiti politici.
Oggi i partiti soffrono di una evidente crisi che è la crisi del sistema democratico: si è  appannato il ruolo storico di trasmissione delle domande provenienti dalla società e di selezione delle élites.
Il partito politico era nel secondo dopo guerra una rete territoriale a partire dal basso che federava a livello nazionale le situazioni locali, una cerniera che garantiva il passaggio di nuovi diritti e del welfare, anche attraverso Enti parastatali , strumenti di intervento statale in campo economico e sociale.
Il nostro è un paese per la sua storia fortemente territorializzato, ove il partito aveva una funzione di cerniera e di camera di compensazione delle realtà sociali differenziate.
Questa iniziale funzione è stata consumata dall’interno dagli apparati burocratici che non hanno saputo capitalizzare il senso delle spinte critiche e contestative provenienti dalla società.
L’art. 49 Cost. (i partiti concorrono con metodo democratico a determinare la vita politica nazionale) non ha mai trovato attuazione attraverso una legislazione attuativa e oggi ancora la si vagheggia con l’attuale referendum elettorale.
Altri intermediari sono da tempo presenti nella società e sostituiscono i partiti nella selezione delle élites: alla precedente modalità di selezione , ancora in qualche modo agganciata al territorio, si sostituisce ora quella imposta dalla potenza economica e dall’immagine mediatica.
Nella breve descrizione degli assetti politico istituzionali fin qui svolta, le donne restano, evidentemente, fuori dalla storia. Fuori da millenni.
Le ragioni dell’origine richiedono altre competenze e non mi soffermo.
Ponendo attenzione ai tempi più recenti, si nota che, acquisito da un sessantennio il diritto di elettorato, le donne esercitano l’elettorato attivo (votano), ma sono piuttosto distanti dall’elettorato passivo (sono assai poco candidate e ancor meno votate)
Questo incide sulla qualità della democrazia, se la democrazia si intende, come si è detto, come situazione di civile convivenza in cui vige il governo della legge e non direttamente quello dell’uomo sul suo simile (che è tirannide).
Vi è, allora, da rilevare che l’assenza delle donne significa perdita di esperienza vitale, pensiero e sentimento femminile nella legge, cioè in quell’insieme di norme che stabiliscono il giusto e l’ingiusto e regolano il vivere associato.
L’esclusione dal farsi della legge cui pure si è assoggettati allude alla sottoposizione a tirannide.
Possiamo dire con la filosofa americana Iris Young (“Le politiche della differenza”) che vi è un gruppo di sesso maschile e di colore bianco/occidentale che si presenta sulla scena della polis come gruppo privilegiato che occupa la posizione di norma rispetto alla quale vengono misurate le altre persone (prevalentemente di sesso femminile), differenti, concettualizzate come devianti rispetto all’unità di misura comune, imposta come neutro universale. In realtà gli attributi implicitamente assunti in quella norma non sono affatto universali, ma specifici di chi quella norma ha costruito modellandola su di sé ed escludendo altri.
Il gruppo concettualizza i diversi come inferiori poiché li misura utilizzando un metro conformato sulla propria soggettività, quindi la diversità da quel canone determina l’espulsione dalla definizione piena di partecipe della cittadinanza.
Questo tipo di concettualizzazione ha effetti non solo sui diversi, ma sulla generalità dei consociati, poiché comporta una gestione della res publica che facilmente degenera in oligarchia. Facilita il riduzionismo sociale che si impone attraverso la negazione di molte individualità di esseri umani multidimensionali (A Sen “Identità e violenza”) e valorizza comunità come la famiglia in qualità di agenti sociali. Si tratta di aggregazioni potenzialmente creatrici di obbedienza e di conformismo rispetto alle quali l’individuo è posto in situazione di passività, destinatario di doveri e obblighi invece che soggetto portatore in sé di diritti, cellula in un complesso che sottrae soggettività.
In questo modo, ci si allontana dalla concezione di democrazia come rimedio al prepotere di pochi, come forma che consente l’esercizio di libertà nello spazio pubblico, che genera libertà in capo a chiunque abiti un determinato territorio di partecipare al processo politico, cioè alla decisione collettiva sulle questioni di giustizia sostanziale, le decisioni che danno forma e connotazione alla vita di ognuno.
In effetti, che cosa sta avvenendo nella situazione politica italiana, con grande disappunto di molti sinceri democratici?
La presa della cosa pubblica da parte di un ceto politico che tiene la scena attraverso organizzazioni partitiche che esprimono prevalentemente carrierismo e competizione per i posti di comando nella società e nell’amministrazione (banche, enti lirici, servizi sanitari, università, enti municipalizzati).
Una forma di reggenza monosessuata maschile a carattere oligarchico in cui alcuni si arrogano il diritto di parlare e decidere in nome delle escluse, assimilandole e dettando in loro nome un programma, elaborato principalmente mettendole a tacere.
A mio parere si può (o meglio, si deve) tentare qualcosa per la qualità della democrazia e per il cambiamento.
La condizione di cittadinanza asimmetrica delle donne può essere agita come leva per la modificazione dell’ordine esistente e della modalità attuale della rappresentanza per cui, il soggetto unico maschile ingloba coloro di cui ha ottenuto in qualche modo il mandato, cancellando qualsiasi articolazione relazionale fra soggetti, negando qualsiasi percorso dai soggetti rappresentanti al sociale e da questo nuovamente ai rappresentanti.
Mi sembra venuto il tempo che molte donne si rendano politicamente responsabili di presentarsi come autentico soggetto critico rispetto all’ordine vigente, portatrici di un progetto di cambiamento che entra a fare parte del quadro istituzionale e lo modifica.
Penso che si possa mettersi in gioco come assenti dal patto sociale maschile che ha determinata l’attuale (in)civiltà e, contemporaneamente, come dotate di particolare competenza sul nodo produzione/riproduzione , un nodo che decide, ai giorni nostri, dello spazio della politica.
L’obiettivo è quello di dare vita ad una diversa configurazione della democrazia, una configurazione alternativa rispetto a quella che deriva dal meccanismo esclusione/inclusione omologante delle donne.
Sono convinta (da più parti lo si è osservato) che i rapporti di potere che si giocano nella sfera politica non possano essere modificati attraverso interventi che si mantengono esclusivamente nella sfera della cittadinanza sociale.
Come sappiamo, i rapporti di potere attualmente sono condizionati dalla divisione sessuale del lavoro e dagli obblighi famigliari posti in capo alle donne, dall’interpretazione ancora patriarcale del nodo produzione/riproduzione: la donna impossidente, confinata nella famiglia, cioè nella periferia della cittadinanza, l’uomo possidente, libero di giocare il proprio e l’altrui destino nella sfera pubblica.
La situazione attuale richiede, allora, una interpretazione che metta in chiaro i nessi che collegano varie problematiche esistenziali che si danno nel contesto ancora patriarcale della nostra società: la famiglia tradizionale e la rottura del suo schema obbligante, talvolta mortifero per la donna, le possibili vie di uscita attraverso il riconoscimento e la valorizzazione di aggregazioni diverse, sperabilmente alternative, capaci di valorizzare le differenti soggettività.
Se il privato cessa di essere per le donne la sfera della privazione, di assoggettamento alle necessità del nucleo famigliare, si potrà tentare una ridefinizione dell’entrare in politica attraverso la ridefinizione del gioco reciproco delle due sfere (privato e pubblico) e del ruolo reciproco di donne e uomini.
A quel punto sarà necessario curare la modificazione e riarticolazione della democrazia attraverso il conflitto di sesso esplicitamente giocato nelle due sfere sui reciproci destini di donne e uomini, su ciò che la polis deve produrre per rendere le vite degne di essere vissute in libertà.
Contemporaneamente, potrà darsi il conflitto esplicito e l’interazione politica fra donne portatrici di esperienze differenziate, un esporsi reciproco  e un percorso di elaborazione collettiva attraverso la comunicazione e l’azione pendolare fra movimenti e donne collocate nelle istituzioni rappresentative.
Attivare conflitti e cercare mediazioni condivise su obiettivi commisurati a desideri e bisogni socialmente elaborati, giocati e contrattati nello spazio pubblico.
Mi convince la tesi di M Nussbaum (“Diventare persone”) secondo cui è così possibile costruire un’idea di cittadinanza che la lascia intendere come agente di attribuzione di eguali diritti, contro la cristallizzazione degli svantaggi, essendo la protezione delle capacità fondamentali dei cittadini oggetto di un imprescindibile interesse dello Stato.
Eliminare la situazione di illibertà materiale ed emotiva delle donne nella famiglia, significa eliminare l’interiorizzazione di una cittadinanza di seconda classe che le spinge a fare scelte che perpetuano condizioni di seconda classe, opzioni adattative che adeguano i loro desideri a modelli che già conoscono, che vengono loro mostrati come inevitabili o comunque per loro auspicabili.
Consumare e riarticolare la democrazia attuale significa per me progettare una democrazia aperta al dialogo: esporsi all’altro in un confronto incessante per un bene pubblico condiviso, coltivare il conflitto per la modificazione, anche e prioritariamente la modificazione di sé, nel legame sociale che riconosce a sé e all’altro pari responsabilità per la vita collettiva.

 

(*) Otanes: “ La mia opinione è che nessuno più debba diventare nostro sovrano… Come potrebbe essere un sistema ordinato la monarchia se in essa è lecito fare quello che si vuole senza renderne conto? Anche il migliore degli uomini essa è in grado di spostare dalle sue convinzioni abituali, una volta che sia arrivato a tale potere. Dai possessi che si trova ad avere gli deriva infatti l’arroganza, mentre fin dall’inizio è insita nell’uomo l’invidia e, avendo questi due vizi, ha ogni malvagità……sovverte le usanze dei padri, violenta le donne, mette a morte senza processo.
La massa al governo, invece, prima di tutto ha il nome più bello di tutti, isonomia, ovvero uguaglianza; in secondo luogo non compie nessuna delle cattive azioni del monarca: tiene le cariche per sorteggio e ne rende conto, riportando alla comunità tutte le deliberazioni. Il mio parere è che abbandoniamo la monarchia ed eleviamo al potere la massa.”
Megabizos: “Quello che ha detto Otanes sulla necessità di porre termine alla monarchia si intenda detto anche da me.; ma quanto a conferire alla massa il potere, si allontana dalla opinione migliore: niente infatti è più cieco e arrogante di una folla inetta e non è tollerabile che per sfuggire all’arroganza di un sovrano gli uomini cadano in quella del popolo sfrenato. …Il popolo la ragione non la possiede affatto. E come potrebbe possederla se non ha imparato né conosce per conto suo niente di bello e piomba sulle questioni senza discernimento, come un torrente impetuoso? ..Scegliamo un gruppo degli uomini migliori e affidiamo a questi il potere. Noi stessi saremo nel numero ed è ragionevole che gli uomini migliori prendano le deliberazioni migliori.”
Dareios: “Quello che ha detto Megabizos sul potere della massa mi sembra giusto, quello che ha detto sull’oligarchia no. Tra le tre forme di governo, considerate nelle condizioni migliori, io sostengo che la monarchia è di gran lunga superiore…. Nell’oligarchia tra quelli che impiegano le loro qualità per il bene comune scoppiano spesso forti conflitti personali, perché ognuno vuole essere il capo e far prevalere le sue opinioni; si verificano dunque gravi inimicizie dalle quali nascono sedizioni e dalle sedizioni stragi e dalle stragi si approda alla monarchia, dimostrando in tal modo quanto quest’ultimo sia il regime preferibile.
Quando al potere è il popolo è impossibile che non sorga la malvagità, tra i malvagi si stabiliscono non inimicizie, ma solide alleanze, perché quelli che danneggiano l’interesse comune lo fanno in combutta tra loro. Questo accade fin quando uno del popolo, messosi alla testa, fa smettere gli altri e di conseguenza riscuote l’ammirazione del popolo ed essendo ammirato, arriva a diventare monarca; e con questo anche lui dimostra che la monarchia è il regime migliore”.

(Citazioni da :G. Zagrebelsky “Imparare la democrazia”)

 

9-05-07